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Utente:Christian/Aliprandi

Da Cantiere.

riflessioni di professionisti open

Ora che finalmente c'è un blog, riporto qui il mio commento al post di Simone Aliprandi, perché anche se ormai vecchio di quasi un mese (3 novembre), è e sarà un tema caldo per molto tempo. Eccolo qui, ma vi invito a consultare anche gli altri interventi sul sito di Simone:

"Anche oggi a Pavia all'incontro "Sapere libera tutti", ho incontrato Simone Aliprandi, una figura di riferimento in Italia per quanto riguarda la diffusione della cultura copyleft in campo giuridico. Anche questa volta, come altre volte in cui avevamo avuto occasione di incontrarci, il pubblico era poco numeroso e in gran parte composto di persone già attive nel campo della cultura "open".

Non ci si poteva non chiedere anche questa volta quale fosse il senso di questi incontri e secondo, ancor più strutturale, se avesse un senso cercare di definirsi professionalmente nell'approccio della cultura aperta.

Senza troppi giri di parole: "non si vive di ideali, parole, consulenze e produzioni gratuite". Forse nell'informatica, l'open source è un nuovo modello di business, etico ma anche economicamente sostenibile. Ma nel campo dell'arte? della musica? del cinema? della giurisprudenza?

Possiamo anticipare ancora una volta i soliti casi speciali: Wu Ming, Kai Zen,... ma siamo sempre a snocciolare quei 4-5 nomi, tanto che sembrano un rosario. Dunque credo che sia legittimo interrogarsi sull'essere professionisti open.

A questo punto mi viene in mente una scambio di battute prese da un film capolavoro, che non dico qual è per non passare per uno che se la tira, ma che penso molti di voi hanno visto. Ad un certo punto, un personaggio dice: "He made an awful lot of money." e l'altro gli risponde "Well, it's no trick to make a lot of money... if what you want to do is make a lot of money." Traduzione: "Si è fatto una marea di soldi", "Beh, non è così difficile fare una mucchio di soldi... se ciò che vuoi è fare un mucchio di soldi". E credo che in questo contesto la frase calzi a pennello: che cosa ci spinge ad avvicinarci alla cultura "open"?

Io credo che fondamentalmente ci siano due approcci, e per distinguerli riprendo impropriamente due concetti dal campo dell'informatica: Software Libero e Open Source. Spesso vengono usati in modo interscambiabile, io stesso a volte lo faccio, e penso che in alcuni contesti non sia sbagliato. Ma in questo caso li uso per rappresentare due approcci completamente distinti. Nel caso di un approccio Open Source, ciò che ci interessa è l'aspetto del business; rispecchia una mentalità da imprenditore: attraverso un nuovo modello economico mi immagino di poter fare dei soldi in nuovo modo, produttivamente valido, che sbaraglia la concorrenza. È una questione di scelte e scelgo il modello di business più redditizio o più promettente, o anche solo più di moda. Se ho fatto bene i calcoli, il business funzionerà.

L'approccio del Software Libero invece è idealista: la libera cultura e la libera informazione sono questioni di principio, diritti fondamentali degli esseri umani. Per un diritto basico si è disposti a lottare, a sacrificare il proprio tempo libero.

Non voglio dare un giudizio di valore su questi due approcci, anzi credo che tutt'e due siano legittimi e che siano stati proprio la loro combinazione a decretare il successo della cultura open nell'informatica. Ma tornando alla domanda di fondo, credo che chi sta cercando di muoversi in modo professionale nel campo della cultura "open" non possa non porsi questa domanda.

Anche io mi ritrovo in questa situazione e probabilmente la mia risposta è molto simile a quella di molti altri "colleghi" del mondo open. Ciò che mi spinge a lavorare in questo nuovo modo è l'approccio filosofico che aspira ad un mondo fatto di possibilità, più che divieti, balzelli e complicazioni burocratiche. Un mondo in cui le nuove possibilità tecnologiche permettono potenzialmente a tutti di esprimersi, scoprire e sviluppare le proprie passioni artistiche, smontare e rimontare a proprio piacimento una realtà dinamica e multimediale che ci avvolge tutt'intorno. Eccetera eccetera eccetera.

Ma come far quadrare i conti?

Viviamo in un'epoca di crisi, di transito. Le cose cambieranno, lo sanno tutti, anche gli ortodossi del copyright lo percepiscono. È un processo inevitabile. Noi vorremmo spingere questo cambiamento, ma sono maturi i tempi? E noi abbiamo capito, veramente capito, come sta cambiando il mondo? Forse no. Può darsi che professionalmente dovremo ritornare a fare altri lavori e aspettare. Forse non riusciremo mai a trasformare i nostri ideali in una professione. Sicuramente non possiamo pretendere di essere necessariamente nel giusto.

Io credo che sia un errore pensare che la cultura open in sé, indipendentemente dal contesto, possa essere davvero un business. Vedo la cultura open come la grande possibilità di dare un diritto all'informazione e alla cultura. Non più un modello culturale di tipo capitalistico, perché se finora implicitamente abbiamo accettato (alcuni a fatica) la logica dell'economia delle risorse materiali, concrete, non si può accettare l'economia delle idee, quando queste hanno la possibilità di diffondersi illimitatamente e gratuitamente. Se una risorsa è disponibile illimitatamente e gratuitamente, non rientra nell'economia. Ed è giusto che sia così. Se un domani diventasse possibile sfamare la gente con dei sassolini o far viaggiare le auto con l'acqua fresca, sarebbe inaccettabile limitare i sassolini o l'acqua solo perché i produttori non guadagnerebbero più (anche se qualcuno la pensa così purtroppo...). La cultura aperta e libera non punta ad altro se non a spingere l'interesse (inteso anche come business) altrove. Ad esempio non vendo software, ma consulenza. Non vendo opere, ma competenza.

A molti questo spaventa, perché hanno paura che questo approccio determini la fine della cultura. Può anche darsi che si arrivi ad un giro d'affari minore. Ma non è detto che la produzione culturale diminuisca. Potrebbe diventare più frammentata, ma chissà che non diventi più interessante e dinamica!

In questo senso, noi pionieri (o illusi) dovremmo imparare ad essere più pragmatici e svegli. Se vogliamo vivere come professionisti in un mondo "open", non possiamo fermarci a fare i profeti. Dobbiamo proiettarci già ora in un nuovo modo di vivere, in un diverso approccio culturale. Se vogliamo davvero promuovere un modello "open", dobbiamo dimostrare nei fatti come ci si possa vivere e non solo, ma anche viverci in pace con sé stessi. La soluzione non è semplice. Ci richiede un sforzo enorme perché non c'è ancora, perché saremo quasi soli, e soprattutto perché dovremo imparare a mettere insieme dei mondi che ora non lo sono.

Da quello che è stata l'esperienza nel mondo open, ci sono sicuramente dei punti che non possiamo evitare di prendere in considerazione, qualunque sia il campo in cui cerchiamo di svilupparci professionalmente:

1) vivremo in mondo in cui la cultura è partecipata: tutti vogliamo fare, vogliamo decidere, non ci accontentiamo più di essere spettatori e basta.

2) Non accetteremo più le autorità che si autoimpongono: né nel cinema, né nella musica, né nelle discipline tecniche. L'autorità dovrà essere guadagnata e sudata sul campo (un'autorità alla Gadamer, per chi è amante delle pippe mentali). Questo implica anche il fatto di essere trasparenti, onesti.

3) Il problema non è il copiare: il problema è avere un pubblico! La competizione, in un mondo in cui tutti producono, sarà fortissima e le risorse saranno disperse. Il primo problema è appunto quello di avere qualcuno che ti ascolta e qualcuno ti ascolterà quando produci qualcosa di originale e valido, hai capito come finanziarlo e hai pure capito come distribuirlo!

Per questo, dicevo a Simone, io credo difficile che potrà veramente esserci uno sbocco professionale per un avvocato con una impostazione "tradizionale" ma che si occupa di open culture, così come credo che saranno pochi a vivere producendo video secondo i modelli classici di produzione audiovisiva. Dobbiamo inventarci delle nuove professioni. Come? In che direzione? Difficile da dire, ma nello stesso tempo è obbligata la risposta. Dobbiamo partire da ciò che sappiamo fare e che ci piace fare.

Un grande punto di forza è quello di ritrovarci e aver voglia di confrontarci. Siamo la generazione che ha i mezzi tecnologici per comunicare e sa usarli. Forse dovremmo imparare a farlo in modo più sincero, pratico e propositivo (e commerciale?).

Come ogni momento di transito ci sono degli svantaggi e dei vantaggi. Lo svantaggio è quello che non ci sono punti di riferimento. Il pubblico forse non sa ancora quello che vuole e dove cercarlo, o forse semplicemente non vuole essere più pubblico! Il vantaggio è che non ci sono lobby, non ci sono tradizioni e dinosauri da rispettare e se il risultato salterà fuori, ci si potrà orgogliosamente prendere i meriti.

Forse un giorno dovremo ammettere che non era il momento giusto o che non siamo riusciti a trovare la chiave giusta o che non ci siamo messi in gioco abbastanza. E allora dobbiamo chiederci: stiamo facendo tutto il possibile? è veramente quello che vogliamo? e poi ancora, fino a che punto siamo disposti ad essere coerenti con le nostre idee?"